19 settembre 2006

Valdo Fusi, chissà se parente di Luca

Da un po' di tempo ci penso ed è ora che dica la mia sulla vicenda tutta torinese di Piazzale Valdo Fusi.

Non voglio entrare nel merito di quanto è stato realizzato, quindi schierarmi con la massa dei "lo trovo orrendo" o stare con la minoranza dei "è un bel progetto", ma vorrei esprimere una mia preoccupazione sulla vivibilità di Torino.

Torino è indubbiamente una bella, bellissima città; il centro ha visto una nuova primavera dal 1993, anno dell'elezione di Castellani a sindaco, con pedonalizzazioni totali o parziali di vie e piazze una volta più simili a svincoli autostradali che a spazi urbani, rifacimenti di interi quartieri (ad esempio il quadrilatero romano) che hanno restituito vita e dignità a pezzi di città e riattivato il settore edile (seppur a favore di poche grandi imprese in qualche modo imparentate o quasi con il sindaco stesso) e così via.

Ma, nonostante le promesse elettorali di tutti i candidati di sinistra (quindi Castellani Bis e Chiamparino 1 e 2), le periferie hanno visto ben pochi investimenti. Ovvio che le Olimpiadi hanno ulteriormente accentuato la necessità di presentare un bel centro ai turisti ed alle telecamere. E ciò era giusto, o comunque compreso nel "pacchetto olimpico".

Ora però le olimpiadi sono finite, aimè, e credo davvero che gli sfrorzi dell'amministrazione e di chi dichiara di voler fare il bene della città debbano concentrarsi in aree più degradate, sfortunate, povere di investimenti.

Piazzale Valdo Fusi è stato rifatto, è nuovo. Può non piacere. Ma ci sono immensi spazi in periferia che necessitano di interventi molto più urgenti. Abbiamo zone, nella nostra città, che sono un misto di degrado, abbandono e orrore architettonico. Ma sui giornali, forse con l'escusione di Torino Cronaca, va detto, non ne vedo quasi mai cenno.

Forse Piazzale Valdo Fusi tocca più il cuore della "Torino che conta", che scende a valle (rotola giù, scriveva Gambarotta) dalla collina o passeggia per il centro. Via Sansovino, forse, è meno visibile agli occhi dei decisori, e così nemmeno Strada del Drosso...

In Francia abbiamo avuto, nei mesi scorsi, il "preoccupante" fenomeno delle rivolte nelle periferie. Forse che una dinamica che continua ad investire sul centro (e rifare una piazza appena terminata perchè qualche a sedicente "think leader" pare non piacere) e tralascia le periferie non contribuisce ad alimentare malcontento tra chi in periferia (malamente) vive? Io non mi stupirei, poi, se a qualcuno scappasse la pazienza...

Spero davvero che l'amministrazione cittadina eviti di spendere un singolo centesimo di euro in piazzale Valdo Fusi (se non per la manutenzione necessaria). Se invece così fosse, io credo che i proprietari di immobili in periferia sarebbero autorizzati a non pagare più un singolo centesimo di euro in tasse locali.

AC

14 settembre 2006

Quella del bambino col naso a piccozzino

C'è un vecchio che tutti i giorni, da anni, va sul molo a pescare, e tutti i giorni gli si siede vicino uno di quei bambini stronzetti, col naso a piccozzino, si mette lì e lo guarda pescare. Alla fine di ogni giornata, quando il vecchio si alza per andarsene, gli chiede "preso niente?", il vecchio riponde di no e il bambino col naso a piccozzino scuote un po' la testa come a dire "ma guarda questo". Un bel giorno la scena è la solita, il vecchio pesca, il bambino col naso a piccozzino guarda; improvvisamente il galleggiante va giù come un siluro, scompare negli abissi. Il vecchio incomincia a recuperare ma dall'altra parte c'è una forza mostruosa, ingaggia una lotta furibonda, ogni tanto sul pelo dell'acqua affiora una schiena scura, è certamente una cernia, ma una cernia gigantesca! Sarà almeno trenta chili, il vecchio continua a lottare, il bambino col naso a piccozzino lo osserva immobile, col sopracciglio un po' alzato e una espressione indifferente. Il vecchio lotta con tutte le sue forze, ha le mani insanguinate per i tagli che si è procurato afferrando il filo di nylon, la cernia non sembra cedere, lui nemmeno. A un certo punto finisce nell'acqua fino alla vita, ha quasi recuperato quando la cernia anziché cercare di scappare gli si avventa contro e lo morde in più punti, il vecchio è una maschera di sangue ma non molla, continua a lottare. Il bambino col naso a piccozzino è sempre immobile, col sopracciglio alzato. Finalmente riesce ad avere ragione della cernia, si issa sul molo con i vestiti laceri, perdendo sangue da più punti, con la sua cernia enorme, arriva sul molo strisciando e sanguinando. Il bambino col naso a piccozzino lo guarda con un'aria di superiorità e gli fa "ché me la regali?"

GFO (In memoria di zio Tony, che ne faceva una specie di dramma epico)

09 settembre 2006

La storia delle storie

Una storia!
Voglio scriverla. Lunga, piena di cose che succedo­no, fantastiche e verosimili. Storia che interessa tutti, tiene sveglie popolazioni di lettori febbricitanti di voglia di sapere come procede, come finisce, e per la voglia che non finisca mai.
Una storia che faccia star male chi è costretto a staccarsene, che dia brividi di piacere, di caldo e di freddo, a chi la percorre divorandola quasi fosse una gara di velo­cità, a chi si ferma ad accarezzare e contemplare ogni sintagma.
La mia storia che sorprende tutti, anche me mentre la scrivo. Che è piena dell’esperienza di ciascuno, detta con la precisione dei poeti.
Se pure avessi tutto il tempo e la pace che occorrono, mi man­cherebbe ancora la storia.
Se pure sapessi che Dio mi darà un bel voto dopo che l’avrò scritta, non saprei da dove cavar­la fuori.
Se ci penso, e ci penso molto, non riesco più a dormi­re, e a mangiare mi viene la nausea: non è mangiando o dormendo che – di solito – si incontra una storia.
La mia vita è piccola, d’accordo, ma potrei sempre dare alla luce una storia grande. Forse. Dunque è meglio esser vivi, anche quando non sembra. Si può sempre dire forse sì, forse prima o poi; e a me càpita con questa storia della storia.
Con certi libri sono stata sveglia le notti (specie d’estate). Mi capitava che, se ero triste, leggendo arrivavo fino in fondo alla tristezza e se ero allegra fino in cima all’allegria.
Forse la mia storia potrei rubarla: non sarei la prima a farlo. Bisogna guardarsi molto be­ne intorno, mettersi a far la spia, avere l’udito fino, la memoria lunga, il sonno leggero per non lasciarsi sfuggire una trama che passi strisciando di notte in camera.
Quando leggeranno la mia storia, tutti do­vranno credere che io l’abbia vissuta, che abbia conosciuto bene personaggi, luoghi, che sia io il protagonista.
Anzi, no: dovranno dimenticarsi che esisto. Solo la storia ci sarà.
No, no di nuovo: dovranno pen­sare a me come a una Maga, perché la mia storia salverà la gente. Gli aspiranti suicidi decideranno che è meglio stare ancora un po’ al mondo, i tronfi scopriranno l’umiltà, gli ignoranti la sapienza. E la noia sarà sconfitta: dopo aver letto la mia storia, a tutti verrà voglia di inven­tarne una più bella. Non ci riusciranno, ma tentando non si annoieranno.
Va bene, ammettiamo che io la trovi e possa scriverla: dopo? Che succede se divento famosa e vogliono intervistarmi o fare dal mio libro un film? No, no! Dovrò nascondermi dove nessuno possa trovarmi e fotografarmi, e tutta la vita che mi resta la dovrò spendere a caccia di altre storie più belle e più grandi, ma mi sarà impossibile scovarne, e sarò schiava, sarò sola. Magari qualche seguace di una strana religione anti-storie mi cercherà per uccidermi e nemmeno quelli che mi vogliono bene potranno proteggermi.
Meglio lasciar perdere. Si sta più comodi in una piccola vita che in una grande storia.

Erme

08 settembre 2006

Gli Eroi in Rete

In Rete capita alle volte di fare una pesca miracolosa.
Certo, occorre sapere cosa e dove cercare, ma se vengono forniti gli strumenti adeguati, capita anche di fare una pesca miracolosa e, come tesori dall'abbacinante lucentezza, finalmente emergono (quasi) inaspettati da uno scrigno, e riempiono della loro luce ciò che ci circonda.

Il mezzo, in questo caso, ha le lunghe mani di Google, che in questo caso paiono trasformarsi nelle (quasi) onniscenti pietre Palantiri della saga Tolkeniana, nella forma di un sito (http://news.google.com/archivesearch), che ravana negli archivi (anche cartacei) dei giornali di mezzo mondo e restituisce praticamente di tutto.

Come detto, i tesori che ne possono uscire sono fulgidi e vividi, se la ricerca è mirata: ho provato a vedere cosa nel mondo scrissero Quel giorno di maggio.

Dal Times del 16 maggio 1949

The Champions Are Dead

Posted Monday, May 16, 1949

To Italians, as to most Europeans, soccer is what baseball is to Americans. No team in Italy was more beloved than Turin's Torinos, whose emblem was a charging bull. Bull-like, the Torinos charged their way to the national championship four times, seldom failed to pay off in the totocalcio, the national soccer pool, where 22 million Italian fans each week place their bets. When the Torinos beat Spain's championship team in Madrid last March a husky Parma worker cried out: "The Italian Republic's first international victory." The papers picked up the phrase and made it into a national slogan.

Last week, the Torinos took off in a chartered airliner for a routine training match against a Portuguese team (which defeated the Italians). On the flight home, lost in a soupy fog, the plane crashed into the Basilica on Superga Hill above Turin (where the members of Italy's former royal house are buried). Dead in the flames were all eleven members (and seven reserve players) of the Torinos team.

All over the country, workers and clerks spilled into the streets and squares, wearing the Torinos' badge encircled in black crepe. Pope Pius XII sent a message of condolence to the players' families. Mourned resident Luigi Einaudi: "Horrifying disaster . . . Harsh blow for the entire nation . . ."

In two days, more than 800,000 mourners had filed into Turin's rococo Palazzo Madama, past coffins that held the remains of Italy's greatest team. Sobbed nine-year-old Luigi Foschi: "The champions are dead. What shall we do?"

Chissà dov'è oggi il 65enne Luigi, i cui occhi hanno visto la squadra più bella del mondo e il Toro morire e rinascere due volte...

Rck

07 settembre 2006

Qualcuno mi spiega?

Questa mattina ho sentito alla radio la lettura dei giornali. Del resto lo faccio ogni mattina, sono un tipo abitudinario.
Su un giornale locale che utilizza un nome di fantasia per indicare un territorio geografico che loro vorrebbero elevare a idea, un “giornalista” scriveva a proposito della volontà di una comunità musulmana di utilizzare uno spazio esteso, mi pare fosse un ex supermercato, per farci una moschea.
Da quel punto iniziava una sparata, ormai diventata quasi un classico, sulla difesa delle nostre tradizioni (che parola sinistra) rispetto alle culture che invadono i nostri spazi e se ne appropriano. Non ricordo le parole esatte ma il succo era questo, lo conosciamo bene ormai.
Che l’aggiungersi di culture diverse all’interno di una società sia nocivo è un’idea da cavernicoli chiaramente. Fa specie che abbia un riscontro così ampio.
Mi chiedo poi quali siano le tradizioni che questi signori vogliono, con tanta veemenza difendere.
L’Italia delle nuove generazioni ha perso la cultura tradizionale, perlopiù contadina, che la contraddistingueva e l’ha sostituita con il nulla del consumo a tutti i costi.
Cosa vogliono difendere allora questi signori?
I raduni folcloristici con le comparse vestite da crociati? I sabati e le domeniche pomeriggio degli adolescenti in centri commerciali che puzzano di autogrill? I reality show con i titoli in inglese? I debiti fatti per comperarsi la televisione al plasma? Le pizzerie che si sono moltiplicate come le alghe tossiche?
Vorrei saperlo perché, sapete, sono una persona curiosa.


O

Un'idea dell'India

Viaggio in India del Sud.
Karnataka (Mysore e Bangalore), Tamil Nadu (Mamallapuram e Maduray) – e qui ho saltato due templi che ora mi mangio le mani per non esserci stato – e il Kerala, ovvero “God’s own country”.
Oltre alla mitica Susana, che non è mai stata un peso ma al contrario è stata fondamentale per la riuscita dell’avventura, i compagni di viaggio sono stati un libro di Moravia scritto nel ’61 dopo il viaggio fatto con Pasolini (uno scrisse “Un’idea dell’India”, l’altro “Odore d’India”) e un libro di Terzani, l’ultimo. Effettivamente ciò che ti rimane dopo un viaggio di sole 3 settimane in un paese così diverso dal nostro è solo “un’idea”.
Sono tornato da due giorni però già durante il viaggio, e ancora adesso, non sono riuscito a capire completamente il paese che ho visitato.
È molto distante dalla nostra cultura (già questo basterebbe a mettere in confusione il visitatore) e in più sta subendo un processo di modernizzazione molto rapido di cui non si capisce se alla finel’impatto sarà positivo o negativo. Sicuramente modifica alcuni comportamenti delle persone e sta creando dei nuovi “ricchi”. È in corso una sorta di occidentalizzazione all’indiana. Un Masala, parola molto utilizzata che vuol dire “miscuglio”. Masala sono alcuni tè fatti con 15 spezie, masala sono i condimenti speziati dei piatti, masala è il genere dei film prodotti a Bolliwood e a Chennay che va per la maggiore. Una sorta di storia di amore che è anche un film d’azione violento con combattimenti ridicoli, che è anche un musical in cui il protagonista è un pasticcere trotskysta. :-) No, non è vero però è anche un musical in cui i protagonisti passano da un combattimento ad un balletto nel giro di qualche secondo.
Per dare un’idea di ciò che ho visto dovrei parlarne almeno per un’ora. Tuttavia se dovessi sintetizzare l’impressione che ho avuto con due sole parole, sceglierei contrasto e contraddizione.
Il viaggio è stato abbastanza faticoso soprattutto all’inizio.Viaggiare zaino in spalla nel terzo mondo mi ha messo ko nel giro di una settimana. Ero arrivato al limite della sopportazione. Chi cazzo me lo fa fare dopo 3 anni durante i quali non ho mai fatto più di una settimana di ferie? Per una volta che posso riposarmi per 3 settimane mi vado a rompere i coglioni nel terzo mondo? E invece alla fine…
Quando si visita un paese di questo tipo si può scegliere tra due tipologie di viaggio: il viaggio da ricchi turisti occidentali, con taxi (auto + autista costano 20 euro al giorno), trasferimenti in aereo per coprire le lunghe distanze e alberghi chic (circa 20 euro a notte), oppure la seconda, che è quella che abbiamo scelto noi, ovvero abbandonare i privilegi derivanti dal cambio favorevole e cercare di vivere completamente il paese che stai visitando. Viverlo completamente significa anche dormire negli alberghetti economici in cui quando sali le scale potresti trovarti di fronte ad un topo grosso come un gatto che le scende, prendere il treno (quando hai la frotuna di trovare un posto libero), oppure farsi trasferimenti di 12 ore a bordo di autobus affollati con “sedili” che sono sostanzialmente delle panchine di legno, autobus senza ammortizzatori che ad ogni buca presa immancabilmente a velocità folle, ti fanno maledire il momento in cui hai deciso di salirci sopra. Tutto questo ti dà la possibilità di entrare in contatto con la realtà del posto, con le famiglie (conosciute durante i viaggi in treno), con le persone povere e stupendamente stupende (cimmy semi cit.) che sono come forse si era una volta anche da noi, solidali, disponibili, ospitali.
Tutte cose che il turista che viaggia solo in taxi, aereo e posti “comodi” inevitabilmente perde. I suoi rapporti sono solo con persone che lo vedono come un portafogli con due gambe da cui sfilare soldi, gente che “lavora” con i turisti, mendicanti, venditori, procacciatori che alla fine danno un’idea diversa della realtà indiana che è molto più complessa e diversificata.
E proprio a causa della complessità della realtà che ho vissuto, alla fine del viaggio posso dire di essermi fatto solo “un’idea dell’India”.

Barabba

04 settembre 2006

Valentin

Valentin in quel momento non stava pensando al calcio, ma alla figlia del droghiere di fronte, che dalla sua finestra vedeva rincasare ogni sera in quell’autunno argentino. Pensava che presto quel vestitino a fiori che esaltava le sue curve aggraziate sarebbe stato coperto da un paletò, e questa non era una bella notizia. Ma un’altra, terribile, stava per raggiungerlo.
Lo chiamavano Valentin, ma il suo vero nome era Gaston. Il soprannome lo doveva alla passione che nutriva per quel Valentino che incantava le folle aldilà dell’oceano. Una vita quasi parallela: capitani entrambi delle loro squadre, il River Plate e il Torino, entrambi col numero 10, entrambi capitani naturali, i più bravi della squadra, ma anche i primi a sacrificarsi per i compagni. Gaston seguiva il Torino dalla fine della guerra, era rimasto folgorato in un cinema del barrio, dove prima di un filmone strappalacrime con Alida Valli, avevano mostrato i miracoli di quella squadra invincibile. E la distanza, l’oceano, rendeva ancor più leggendarie quelle imprese. L’anno prima avrebbe voluto correre in Brasile a vederla in carne e ossa, quella squadra imbattibile, ma non ci era riuscito, così aveva giurato a se stesso che ci sarebbe andato l’anno dopo, per i mondiali, tanto la nazionale italiana erano loro. La conoscevano tutti quella sua passione per il Torino e in particolare per Mazzola; così tutti incominciarono a chiamarlo Valentin e lui si guardò bene dallo scoraggiarli.

Valentin aveva istruito un suo cugino d’acquisto, un tal Bongiovanni, il cui padre era emigrato dal cuneese all’inizio del secolo: le domeniche in cui giocava in casa il River Plate, Bongiovanni lo raggiungeva negli spogliatoi del Monumental sventolando il telegramma che un suo zio gli mandava dall’Italia, con il risultato della partita del Torino. Una volta fece tardi e la partita del River iniziò senza che Gaston conoscesse il risultato del Torino. Gaston era teso, si fece ammonire e rischiò un paio di volte il secondo cartellino giallo. Poi all’inizio del secondo tempo Bongiovanni riuscì a raggiungere lo stadio e ad attirare l’attenzione di un raccattapalle, al quale ordinò di comunicare a Gaston che il Torino aveva battuto a Roma i giallorossi per 7-1, dopo aver chiuso il primo tempo in svantaggio. In quel momento anche il River era sotto di un gol; Gaston appresa la notizia si rimboccò le maniche, come aveva visto fare a Valentino in quel cinema, e prese a giocare come una furia, segnò una tripletta e il River vinse 5-1. Uscendo dal campo era scuro in volto, l’allenatore gli chiese perché non gioiva, aveva praticamente ribaltato il risultato da solo; lui scuotendo la testa rispose “volevo farne altri due, come il Torino”.
Quando un ragazzino piccoletto e dalla testa enorme comparve in fondo al vicolo Gaston fantasticava sulla figlia del droghiere, non pensava a Valentino. Il ragazzino era arrivato l’anno prima da un villaggio della provincia, per giocare nel River, tutti dicevano che era il suo erede, che un giorno la maglia numero 10 di Valentin sarebbe passata sulle sue spalle; lui si era subito attaccato a Gaston, riconosceva in lui il maestro. Valentin lo seguiva, ne intuiva il grande talento, cercava di limitarne gli eccessi caratteriali, con poco successo. Gli diceva:
"Per portare in giro quel caratteraccio ci va il fisico, o metti su un po’ di muscoli o prenderai tante botte."
Un’altra volta che lo fece uscire dai gangheri dicendo che il più grande giocatore argentino era Cesarini, lo inseguì per tutto il campo prendendolo a pedate nel culo. C’era qualcosa che lo disturbava in lui, qualcosa che non lo convinceva, come una premonizione.
Si chiamava Omar.

Quando Omar comparve in fondo al vicolo con il viso rigato dalle lacrime, la faccia sconvolta, Valentin stava pensando alla figlia del droghiere. Era nata in Italia, suo padre era emigrato da una decina d’anni, lei era arrivata a Baires bambina. Anche per attaccare discorso la prima volta con lei Valentin era ricorso al Torino.
"In Italia c’è una squadra che gioca il calcio degli dei, una squadra che quando i suoi giocatori toccano la palla è poesia, una squadra che quando fa gol riscrivono le antologie, lo sapevi?"
"E’ quella dove gioca Cesarini?"
"Scherzi? Cesarini gioca nella stessa città, ma in una squadra senza poesia, il Torino invece ha un capitano che salva il gol sulla linea di porta e non fai in tempo a chiudere gli occhi che quando li riapri è già dall’altra parte del campo a far gol; un terzino che è così elegante e bello nel gesto tecnico che quando riceve palla le ragazze sugli spalti svengono a decine, un portiere che è come se prima della partita murassero la porta…"
E piano piano aveva appassionato anche lei con il Torino. Si fermava alla bottega e le raccontava le imprese epiche di quegli eroi italiani, finché il droghiere non la richiamava, borbottando che dei calciatori, per di più ostili alla squadra del grande Cesarini, un esempio per tutti gli italiani di Baires, non bisognava fidarsi, non bisognava dar loro nessuna confidenza.

Quando Omar arrivò sotto la sua finestra avvolto in un groviglio di ansimi e singhiozzi, Valentin non pensava al calcio, e pochi attimi dopo avrebbe voluto non averci mai pensato, avrebbe voluto che il calcio non fosse mai esistito perché non esistesse neanche quell’aculeo che gli stava trafiggendo il cuore. Omar sventolava freneticamente un telegramma
"Tuo cugino mi ha detto di venire subito, di portarti questo"
Era mercoledì, aveva sentito che il Torino avrebbe giocato un’amichevole quella settimana, ma lo zio di Bongiovanni scriveva solo la domenica, per i risultati del campionato.
"Ha detto che non ce la faceva a venir lui, dovevi vederlo, com’è ridotto!"
"Ma cosa è successo? Cosa stai dicendo?"
"Il Torino, sono tutti morti."

GFO

01 settembre 2006

Racconto di natale

Ho spinto la porta rossa e sono entrato. Il bar era vuoto. In fondo al lungo bancone, di fronte alla cassa, il proprietario si stava spogliando idealmente una signora bionda, probabilmente ossigenata, dal decoltè generoso, che sedeva in fronte a lui.
Fuori un vento caldo e secco, smuoveva polvere e pacchetti di sigarette deformati. Formava piccoli e fastidiosi vortici, che mulinavano intorno alle gambe dei rari passanti. I lampioni cominciavano ad accendersi nell’ora morbida del pomeriggio.
Ero a pezzi. Depresso e forse anche un po’ impaurito dal nulla che mi circondava, un nulla opprimente. Pesava sul cuore, le viscere, gli organi molli. Le frattaglie insomma.
Mi sono seduto al primo sgabello, quello più lontano dai due, ho chiesto da bere, sentendo distintamente la voce uscire dal mio corpo come fosse cosa solida, viva, autonoma. Che una volta creata avrebbe finalmente lasciato questo corpo mediocre e cominciato a girare per le strade ripetendo infinitamente l’ordine “Da bere per cortesia, da bere per cortesia, scusi signore, da bere per cortesia, da bere…scusi…signore…” Un’entità libera.
Ho domandato la prima volta. Lui non mi ha sentito, forse. Ma credo lo abbia fatto apposta.
Gli ho dovuto ripetere la tiritera e, finalmente, con uno sguardo lento ed i movimenti di un corpo che sembrava atrofizzato dai secoli, si è diretto verso di me, percorrendo lo spazio tra noi in un tempo infinito. Così mi è sembrato almeno.
Ha preso la spugna e, con uno svogliato movimento rotatorio del braccio, ha cominciato a pulire il banco dagli strati di unto depositati nelle fessure di formica del bancone. Così, quasi a prendere tempo.
Non so perché ci ero entrato in quel posto, forse per sfuggire l’aria malata che mi seccava dentro. O la luce. C’erano delle piccole lampade sul bancone. C’era una bella luce. Sono sensibile a certe cose.
Finalmente il barista mi versa da bere, si gira, ripercorre longitudinalmente il banco trascinando le suole sopra il tavolato di legno marcescente e ritorna finalmente dalla donna, seduta su di uno sgabello di fronte alla cassa. Lei nel frattempo si era zittita e mi aveva lanciato certi sguardi mica amichevoli. Mi aveva squadrato per benino la signora, così, tanto per cercare di capire perché io fossi lì a disturbare la loro conversazione.
Hanno ricominciato a parlare a bassa voce. La donna diceva qualcosa a proposito di un’amica sua, che pare avesse avuto dei gravi problemi di salute in seguito ad un aborto che lei, però, non avrebbe voluto fare, che il suo tipo l’aveva costretta, che la voleva sbattere fuori di casa e che non si aspettasse lui mantenesse lei e quel tipo di creatura che doveva nascere, che poi chissà se era suo. Mi pare di capire che l’aveva pure malmenata. Insomma una storia di quelle che si leggono nelle pagine di cronaca locale dei giornali a proposito dei problemi della nostra società malata, che gli mancano i valori e tutte queste cose. Che i giovani sono sporchi dentro. Eppure la tizia mica mi sembrava molto giovane. O forse era amica di una donna più giovane. O la sua amica stava con un ganzo giovane. Questo non ero riuscito a capirlo. Non avevo sentito.
L’uomo stava in silenzio, ma la storia mica la ascoltava troppo. Scorreva il suo sguardo lui. Su e giù. Si fermava solo sui punti più interessanti. Era un individuo alto e secco, le mani ossute terminavano con delle lunghe dita e queste con delle unghie lunghe e sporche. Aveva la faccia di una persona senza particolari sentimenti, senza interessi, un viso sul quale il tempo e le disgrazie possono passare senza lasciare la minima traccia. Solo un leggero colorito che virava al giallo denunciava ai clienti dei probabili problemi di ordine epatico. I capelli, corti e diritti, si diradavano sulle tempie e lasciavano scoperta una fronte alta e lucida.
Ho chiesto ancora da bere. Mi dispiaceva quasi disturbarli. La donna, di nuovo interrotta nel suo parlare, mi ha lanciato un’occhiata stizzita, quasi come se la mia richiesta fosse qualcosa di completamente strampalato in quel luogo, il comportamento di un individuo eccentrico.
Il tizio allampanato ha dovuto di nuovo affrontare la fatica portando i suoi piedi fino da me e versarmi il secondo bicchiere. Questa volta tutto più velocemente però.
La donna lo stava aspettando per poter continuare a sguazzare nel fango delle sue miserie umane. Beveva, alzava il bicchiere con gesti annoiati. Poi ha ripreso il suo racconto con tono monocorde.
Pare che lei non lo volesse più vedere nemmeno in fotografia, che aveva delle perdite di sangue e dei dolori addominali molto forti. Era pure andata del medico, lui le aveva fatto fare degli esami. Intanto il ganzo si era quasi pentito e smaniava che lei ritornasse, le mandava fiori e cioccolatini di scarsa qualità e lettere nelle quali spiegava quanto fosse stato stupido, che adesso il bambino l’avrebbe voluto­, che riprovassero assieme, che era un uomo profondamente cambiato.
L’altra rispondeva di girare alla larga che l’avrebbe ingozzato come un’oca con il sangue delle sue emorragie e ne avrebbe fatto patè di fegato di lerciume.
Chiesi ancora da bere.
L’uomo non parlava, annuiva di tanto in tanto, come se la storia non avesse alcun aspetto particolarmente seccante per lui, come se gli fosse capitato diecine di volte, come se prendere a calci nel ventre una donna incinta fosse un’attività totalmente coerente con il comperare il giornale ogni mattina, attraversare la strada o fare la spesa in un negozio.
Un leggero ghigno tradiva forse una specie di ammirazione per la lenza, salvo non approvare per nulla il suo tardivo pentimento e le spese per i dolciumi. Per non parlare dei fiori.
Lei, totalmente rapita dal suo medesimo racconto, rivelava a tratti il suo intimo di pizzo bianco, in specie quando mulinava le braccia per enfatizzare qualche concetto scabroso della vicenda
Non che ascoltassi. Non ascoltavo mica. Solo che non c’era nessuno li dentro, nemmeno la musica. C’era una specie di radio. Aveva un colore che non so, ma comunque era spenta.
Non volevo mica uscire adesso. C’era fuori questo vento. Un senso di soffocamento. Ero sudato. Così ho ordinato qualcosa, per festeggiare la data.
Stavo appoggiato al banco, il calore alcolico mi avvolgeva in un pastoso abbraccio. Le parole della donna mi arrivavano come onde, alcune le comprendevo poi sparivano, risucchiate nelle risacca.
Mi son messo a pensare a quello che avevo fatto fino ad oggi, ai miei sogni. Avrei voluto passare quella notte con lei, le avrei versato del vino bianco ghiacciato in un bicchiere pulito, le avrei dettagliatamente spiegato il mio piano per fare una montagna di soldi, lo avevo letto da qualche parte. Su una rivista che avevo comperato. Una cosa sicura, lo dicevano. Come può essere semplice la vita, a volte.
La donna parlava. Continuava la storia, l’aveva infittita di dettagli. Particolari che nulla avevano a che vedere con la trama principale. Ho sentito qualcosa a proposito di debiti non onorati, automobili non pagate, acidità di stomaco. Non capivo più se l’altra avesse poi trovato qualche tizio compassionevole che liabbia con se. Se in quel momento fosse felice in qualche casa riscaldata, fosse morta in un pronto soccorso o battesse qualche marciapiede. Non ricordo la voce dell’uomo, non so se abbia mai parlato. Ma che importava?
Non importavano le migliaia di parole dette ogni giorno, i buoni propositi, gli amori finiti, il pesce andato a male, i frigoriferi vuoti, le persone che non arrivavano alla fine del mese…nulla.
In quel momento è entrato il ragazzino. Poteva avere, a mio parere, poco più di dodici anni, tredici al massimo. La tizia ha smesso di parlare, ed essendo la sua voce l’unico suono costante all’interno del bar, è calato il silenzio.
Non è mica bello per un ragazzino entrare in un posto con tre persone che ti guardano. Non è semplice quando hai appena posato il tuo fumetto.
La macchina del ghiaccio emetteva suoni regolari, come dei lamenti, seguiti da scrosci di cubetti pronti all’uso. Quello che mi colpiva di più era l’assenza di rumori gentili, la totale mancanza di una qualsiasi armonia musicale o umana. Il vento di fuori faceva sbattere un cavo elettrico contro il neon dell’insegna violetta. Tutto ad un ritmo molto regolare, quasi voluto.
Sulle prime il ragazzino è stato li ad aspettare, mentre la bionda aggiungeva alcuni particolari pruriginosi sulla vicenda. Il tipo voleva invitarla a casa sua per il natale, lei quasi ci andava ma aveva sentito che ci sarebbe stata anche un’altra tizia…non capiva il nesso. Così era stata a casa.
Il ragazzino non pareva aver fretta. Prese a scalciare un pezzo di carta lasciato imputridire sul pavimento lurido. Il barista non pareva un fanatico della pulizia.
Aveva anche dei numeri il giovane. Riusciva a palleggiare con la palla di carta unta e passarsela da un piede all’altro, da un ginocchio all’altro senza farle toccare terra.
Mi pareva che le palpebre della bionda si fossero leggermente abbassate. Il tizio continuava a versarle da bere, non c’era problema, era tutto offerto dalla casa, che quando una signora così entrava in un locale di classe come il suo, certo avrebbe trovato solo tappeti rossi per il benvenuto, e vino bianco in fresco, e mani pronte a palparle il culo.
La donna s’era intristita. Pareva pure che i suoi seni, così floridi al mio ingresso, si fossero avvizziti in una vecchiaia giunta nell’arco di una serata. Una lacrima le aveva segnato il rimmel. A quel punto ha preso la sua borsetta e si è avviata verso i cessi sui tacchi delle scarpe comprate in saldo ai grandi magazzini. Le donne capiscono quando è il momento di riapparire come nuove di fronte al mondo. Intanto, quasi a voler essere professionale, l’uomo domanda al giovane se avesse bisogno di qualche cosa. Un gelato, qualcosa di dolce. Non aveva niente di dolce, se ne cercava doveva andare in quel negozio più giù, che lì da lui non si vendevano.
Il ragazzino ha chiesto una confezione da sei birre, che fossero ben ghiacciate per favore.
Ma ce li aveva i soldi per pagarle le sei birre? Ce li hai i soldi? Gli ha detto, mentre la bionda usciva dal bagno ispirata dai sentimenti più materni, e cominciava a fargli domande personali. Cosa ci faceva un ragazzino così bellino in quel posto, a quell’ora, quella notte. Non c’aveva una mamma? No, non ce l’aveva. E un padre? Ce l’aveva un padre, vero? Certo, le birre erano per lui. Lo aveva mandato a comperarle, abitava dall’altro lato della strada.
Dall’altro lato della strada? Ma allora l’uomo avrebbe dovuto conoscerlo sicuramente, non era vero?
No, il barista non lo conosceva, e nemmeno aveva mai visto il ragazzino con la faccia d’angelo.
Cominciai a pensare che avrei dovuto trovare delle vie d’uscita da questo labirinto. Delle vie che salissero verso una qualche luce, avessero una prospettiva.
La schiena mi doleva ed ero quasi incapace di controllare un leggero tremolio della mano sinistra. Il ventre gonfio mi impediva una postura decente e le gambe, anchilosate dalla seduta sullo sgabello, non mi avrebbero risposto nel caso avessi dovuto fuggire improvvisamente a causa di un incendio o di una sparatoria. Gli occhi mi lacrimavano, e più me le grattavo più mi aumentava il bruciore e quasi non riuscivo più a vedere fino all’altro capo del banco. In quel momento ero un uomo totalmente indifeso, privo di ogni facoltà propria, un relitto attraccato al banco di formica. Sentivo la gola ardere. Le rade automobili che passavano a forte velocità appena li fuori, erano come una pugnalata ai miei timpani, avrei voluto vivere in un mondo senza suoni.
I due al fondo del banco parlavano ancora, il ragazzino attendeva pazientemente.
Quando il barista si è deciso ha aperto il frigo sotto il bancone, ha preso una confezione da sei birre. Ha chiesto i soldi e consegnato il cartone al giovane.
La donna , con le consonanti che le scivolavano fra le labbra, lo ha salutato con un augurio, e però non bere troppo ragazzino. E ride, sgangherata.
Avevo la mano in tasca e pensavo a un’amica quando ho sentito la frenata ed il botto. Un rumore soffocato, come di sacco schiacciato seguito da un suono brillante di metallo sull’asfalto.
La donna si mette a strillare, io stavo ancora sudando e mi mancava il fiato, penso che il cuore non riuscisse più a inviare sangue sufficente fino al cervello.
Ora mi alzo. Perché non mi alzo? Gli altri sono fuori. Hanno lasciato la porta aperta. La donna piange scompostamente. Arriva altra gente da chissà dove.
Non so quanto tempo è passato. Mi sono versato da bere da me, mi sono servito il giro da solo questa volta. Ho sentito la sirena arrivare e ripartire, la donna piangere e un rotolare di lattine vuote spostate dal vento.
Con qualche fatica ho trovato dei denari nelle tasche per pagare il tutto. Il barista carezzava i capelli ossigenati della donna sconvolta.
Quando sono uscito nessuno mi ha notato. Il tizio aveva una sua tecnica per consolare le donne in stato confusionale. Il vento continuava a soffiare secco e incessante, le lampadine della festa che ondeggiavano.
Ho cominciato camminare verso casa, non so a che ora. Un dolore diffuso mi attraversava completamente. C’era sangue e birra sull’asfalto e gente intorno. Mormoravano qualcosa, forse era arrivato il padre, mica capivo bene.
Non mi sono fermato, che senso avrebbe avuto? Ho cominciato a camminare seguendo il marciapiede, un filo di saliva densa mi colava da un lato della bocca.
Poi l’ho vista.
Era una delle sei lattine, intatta. Scivolata fra le gambe dei curiosi, gettata lì dal colpo violento. Era chiusa, fresca. L’ho aperta. C’era niente di male secondo me.
Sono ripartito alzando lo sguardo, lentamente perché la testa mi girava. Un chiarore nel cielo mi faceva indovinare l’andamento dei tetti e le altezze degli edifici. Una luce gentile, ho pensato per un attimo che fosse quella dell’alba. Ma era solo il riflesso delle luci elettriche.


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