Ho spinto la porta rossa e sono entrato. Il bar era vuoto. In fondo al lungo bancone, di fronte alla cassa, il proprietario si stava spogliando idealmente una signora bionda, probabilmente ossigenata, dal decoltè generoso, che sedeva in fronte a lui.
Fuori un vento caldo e secco, smuoveva polvere e pacchetti di sigarette deformati. Formava piccoli e fastidiosi vortici, che mulinavano intorno alle gambe dei rari passanti. I lampioni cominciavano ad accendersi nell’ora morbida del pomeriggio.
Ero a pezzi. Depresso e forse anche un po’ impaurito dal nulla che mi circondava, un nulla opprimente. Pesava sul cuore, le viscere, gli organi molli. Le frattaglie insomma.
Mi sono seduto al primo sgabello, quello più lontano dai due, ho chiesto da bere, sentendo distintamente la voce uscire dal mio corpo come fosse cosa solida, viva, autonoma. Che una volta creata avrebbe finalmente lasciato questo corpo mediocre e cominciato a girare per le strade ripetendo infinitamente l’ordine “Da bere per cortesia, da bere per cortesia, scusi signore, da bere per cortesia, da bere…scusi…signore…” Un’entità libera.
Ho domandato la prima volta. Lui non mi ha sentito, forse. Ma credo lo abbia fatto apposta.
Gli ho dovuto ripetere la tiritera e, finalmente, con uno sguardo lento ed i movimenti di un corpo che sembrava atrofizzato dai secoli, si è diretto verso di me, percorrendo lo spazio tra noi in un tempo infinito. Così mi è sembrato almeno.
Ha preso la spugna e, con uno svogliato movimento rotatorio del braccio, ha cominciato a pulire il banco dagli strati di unto depositati nelle fessure di formica del bancone. Così, quasi a prendere tempo.
Non so perché ci ero entrato in quel posto, forse per sfuggire l’aria malata che mi seccava dentro. O la luce. C’erano delle piccole lampade sul bancone. C’era una bella luce. Sono sensibile a certe cose.
Finalmente il barista mi versa da bere, si gira, ripercorre longitudinalmente il banco trascinando le suole sopra il tavolato di legno marcescente e ritorna finalmente dalla donna, seduta su di uno sgabello di fronte alla cassa. Lei nel frattempo si era zittita e mi aveva lanciato certi sguardi mica amichevoli. Mi aveva squadrato per benino la signora, così, tanto per cercare di capire perché io fossi lì a disturbare la loro conversazione.
Hanno ricominciato a parlare a bassa voce. La donna diceva qualcosa a proposito di un’amica sua, che pare avesse avuto dei gravi problemi di salute in seguito ad un aborto che lei, però, non avrebbe voluto fare, che il suo tipo l’aveva costretta, che la voleva sbattere fuori di casa e che non si aspettasse lui mantenesse lei e quel tipo di creatura che doveva nascere, che poi chissà se era suo. Mi pare di capire che l’aveva pure malmenata. Insomma una storia di quelle che si leggono nelle pagine di cronaca locale dei giornali a proposito dei problemi della nostra società malata, che gli mancano i valori e tutte queste cose. Che i giovani sono sporchi dentro. Eppure la tizia mica mi sembrava molto giovane. O forse era amica di una donna più giovane. O la sua amica stava con un ganzo giovane. Questo non ero riuscito a capirlo. Non avevo sentito.
L’uomo stava in silenzio, ma la storia mica la ascoltava troppo. Scorreva il suo sguardo lui. Su e giù. Si fermava solo sui punti più interessanti. Era un individuo alto e secco, le mani ossute terminavano con delle lunghe dita e queste con delle unghie lunghe e sporche. Aveva la faccia di una persona senza particolari sentimenti, senza interessi, un viso sul quale il tempo e le disgrazie possono passare senza lasciare la minima traccia. Solo un leggero colorito che virava al giallo denunciava ai clienti dei probabili problemi di ordine epatico. I capelli, corti e diritti, si diradavano sulle tempie e lasciavano scoperta una fronte alta e lucida.
Ho chiesto ancora da bere. Mi dispiaceva quasi disturbarli. La donna, di nuovo interrotta nel suo parlare, mi ha lanciato un’occhiata stizzita, quasi come se la mia richiesta fosse qualcosa di completamente strampalato in quel luogo, il comportamento di un individuo eccentrico.
Il tizio allampanato ha dovuto di nuovo affrontare la fatica portando i suoi piedi fino da me e versarmi il secondo bicchiere. Questa volta tutto più velocemente però.
La donna lo stava aspettando per poter continuare a sguazzare nel fango delle sue miserie umane. Beveva, alzava il bicchiere con gesti annoiati. Poi ha ripreso il suo racconto con tono monocorde.
Pare che lei non lo volesse più vedere nemmeno in fotografia, che aveva delle perdite di sangue e dei dolori addominali molto forti. Era pure andata del medico, lui le aveva fatto fare degli esami. Intanto il ganzo si era quasi pentito e smaniava che lei ritornasse, le mandava fiori e cioccolatini di scarsa qualità e lettere nelle quali spiegava quanto fosse stato stupido, che adesso il bambino l’avrebbe voluto, che riprovassero assieme, che era un uomo profondamente cambiato.
L’altra rispondeva di girare alla larga che l’avrebbe ingozzato come un’oca con il sangue delle sue emorragie e ne avrebbe fatto patè di fegato di lerciume.
Chiesi ancora da bere.
L’uomo non parlava, annuiva di tanto in tanto, come se la storia non avesse alcun aspetto particolarmente seccante per lui, come se gli fosse capitato diecine di volte, come se prendere a calci nel ventre una donna incinta fosse un’attività totalmente coerente con il comperare il giornale ogni mattina, attraversare la strada o fare la spesa in un negozio.
Un leggero ghigno tradiva forse una specie di ammirazione per la lenza, salvo non approvare per nulla il suo tardivo pentimento e le spese per i dolciumi. Per non parlare dei fiori.
Lei, totalmente rapita dal suo medesimo racconto, rivelava a tratti il suo intimo di pizzo bianco, in specie quando mulinava le braccia per enfatizzare qualche concetto scabroso della vicenda
Non che ascoltassi. Non ascoltavo mica. Solo che non c’era nessuno li dentro, nemmeno la musica. C’era una specie di radio. Aveva un colore che non so, ma comunque era spenta.
Non volevo mica uscire adesso. C’era fuori questo vento. Un senso di soffocamento. Ero sudato. Così ho ordinato qualcosa, per festeggiare la data.
Stavo appoggiato al banco, il calore alcolico mi avvolgeva in un pastoso abbraccio. Le parole della donna mi arrivavano come onde, alcune le comprendevo poi sparivano, risucchiate nelle risacca.
Mi son messo a pensare a quello che avevo fatto fino ad oggi, ai miei sogni. Avrei voluto passare quella notte con lei, le avrei versato del vino bianco ghiacciato in un bicchiere pulito, le avrei dettagliatamente spiegato il mio piano per fare una montagna di soldi, lo avevo letto da qualche parte. Su una rivista che avevo comperato. Una cosa sicura, lo dicevano. Come può essere semplice la vita, a volte.
La donna parlava. Continuava la storia, l’aveva infittita di dettagli. Particolari che nulla avevano a che vedere con la trama principale. Ho sentito qualcosa a proposito di debiti non onorati, automobili non pagate, acidità di stomaco. Non capivo più se l’altra avesse poi trovato qualche tizio compassionevole che liabbia con se. Se in quel momento fosse felice in qualche casa riscaldata, fosse morta in un pronto soccorso o battesse qualche marciapiede. Non ricordo la voce dell’uomo, non so se abbia mai parlato. Ma che importava?
Non importavano le migliaia di parole dette ogni giorno, i buoni propositi, gli amori finiti, il pesce andato a male, i frigoriferi vuoti, le persone che non arrivavano alla fine del mese…nulla.
In quel momento è entrato il ragazzino. Poteva avere, a mio parere, poco più di dodici anni, tredici al massimo. La tizia ha smesso di parlare, ed essendo la sua voce l’unico suono costante all’interno del bar, è calato il silenzio.
Non è mica bello per un ragazzino entrare in un posto con tre persone che ti guardano. Non è semplice quando hai appena posato il tuo fumetto.
La macchina del ghiaccio emetteva suoni regolari, come dei lamenti, seguiti da scrosci di cubetti pronti all’uso. Quello che mi colpiva di più era l’assenza di rumori gentili, la totale mancanza di una qualsiasi armonia musicale o umana. Il vento di fuori faceva sbattere un cavo elettrico contro il neon dell’insegna violetta. Tutto ad un ritmo molto regolare, quasi voluto.
Sulle prime il ragazzino è stato li ad aspettare, mentre la bionda aggiungeva alcuni particolari pruriginosi sulla vicenda. Il tipo voleva invitarla a casa sua per il natale, lei quasi ci andava ma aveva sentito che ci sarebbe stata anche un’altra tizia…non capiva il nesso. Così era stata a casa.
Il ragazzino non pareva aver fretta. Prese a scalciare un pezzo di carta lasciato imputridire sul pavimento lurido. Il barista non pareva un fanatico della pulizia.
Aveva anche dei numeri il giovane. Riusciva a palleggiare con la palla di carta unta e passarsela da un piede all’altro, da un ginocchio all’altro senza farle toccare terra.
Mi pareva che le palpebre della bionda si fossero leggermente abbassate. Il tizio continuava a versarle da bere, non c’era problema, era tutto offerto dalla casa, che quando una signora così entrava in un locale di classe come il suo, certo avrebbe trovato solo tappeti rossi per il benvenuto, e vino bianco in fresco, e mani pronte a palparle il culo.
La donna s’era intristita. Pareva pure che i suoi seni, così floridi al mio ingresso, si fossero avvizziti in una vecchiaia giunta nell’arco di una serata. Una lacrima le aveva segnato il rimmel. A quel punto ha preso la sua borsetta e si è avviata verso i cessi sui tacchi delle scarpe comprate in saldo ai grandi magazzini. Le donne capiscono quando è il momento di riapparire come nuove di fronte al mondo. Intanto, quasi a voler essere professionale, l’uomo domanda al giovane se avesse bisogno di qualche cosa. Un gelato, qualcosa di dolce. Non aveva niente di dolce, se ne cercava doveva andare in quel negozio più giù, che lì da lui non si vendevano.
Il ragazzino ha chiesto una confezione da sei birre, che fossero ben ghiacciate per favore.
Ma ce li aveva i soldi per pagarle le sei birre? Ce li hai i soldi? Gli ha detto, mentre la bionda usciva dal bagno ispirata dai sentimenti più materni, e cominciava a fargli domande personali. Cosa ci faceva un ragazzino così bellino in quel posto, a quell’ora, quella notte. Non c’aveva una mamma? No, non ce l’aveva. E un padre? Ce l’aveva un padre, vero? Certo, le birre erano per lui. Lo aveva mandato a comperarle, abitava dall’altro lato della strada.
Dall’altro lato della strada? Ma allora l’uomo avrebbe dovuto conoscerlo sicuramente, non era vero?
No, il barista non lo conosceva, e nemmeno aveva mai visto il ragazzino con la faccia d’angelo.
Cominciai a pensare che avrei dovuto trovare delle vie d’uscita da questo labirinto. Delle vie che salissero verso una qualche luce, avessero una prospettiva.
La schiena mi doleva ed ero quasi incapace di controllare un leggero tremolio della mano sinistra. Il ventre gonfio mi impediva una postura decente e le gambe, anchilosate dalla seduta sullo sgabello, non mi avrebbero risposto nel caso avessi dovuto fuggire improvvisamente a causa di un incendio o di una sparatoria. Gli occhi mi lacrimavano, e più me le grattavo più mi aumentava il bruciore e quasi non riuscivo più a vedere fino all’altro capo del banco. In quel momento ero un uomo totalmente indifeso, privo di ogni facoltà propria, un relitto attraccato al banco di formica. Sentivo la gola ardere. Le rade automobili che passavano a forte velocità appena li fuori, erano come una pugnalata ai miei timpani, avrei voluto vivere in un mondo senza suoni.
I due al fondo del banco parlavano ancora, il ragazzino attendeva pazientemente.
Quando il barista si è deciso ha aperto il frigo sotto il bancone, ha preso una confezione da sei birre. Ha chiesto i soldi e consegnato il cartone al giovane.
La donna , con le consonanti che le scivolavano fra le labbra, lo ha salutato con un augurio, e però non bere troppo ragazzino. E ride, sgangherata.
Avevo la mano in tasca e pensavo a un’amica quando ho sentito la frenata ed il botto. Un rumore soffocato, come di sacco schiacciato seguito da un suono brillante di metallo sull’asfalto.
La donna si mette a strillare, io stavo ancora sudando e mi mancava il fiato, penso che il cuore non riuscisse più a inviare sangue sufficente fino al cervello.
Ora mi alzo. Perché non mi alzo? Gli altri sono fuori. Hanno lasciato la porta aperta. La donna piange scompostamente. Arriva altra gente da chissà dove.
Non so quanto tempo è passato. Mi sono versato da bere da me, mi sono servito il giro da solo questa volta. Ho sentito la sirena arrivare e ripartire, la donna piangere e un rotolare di lattine vuote spostate dal vento.
Con qualche fatica ho trovato dei denari nelle tasche per pagare il tutto. Il barista carezzava i capelli ossigenati della donna sconvolta.
Quando sono uscito nessuno mi ha notato. Il tizio aveva una sua tecnica per consolare le donne in stato confusionale. Il vento continuava a soffiare secco e incessante, le lampadine della festa che ondeggiavano.
Ho cominciato camminare verso casa, non so a che ora. Un dolore diffuso mi attraversava completamente. C’era sangue e birra sull’asfalto e gente intorno. Mormoravano qualcosa, forse era arrivato il padre, mica capivo bene.
Non mi sono fermato, che senso avrebbe avuto? Ho cominciato a camminare seguendo il marciapiede, un filo di saliva densa mi colava da un lato della bocca.
Poi l’ho vista.
Era una delle sei lattine, intatta. Scivolata fra le gambe dei curiosi, gettata lì dal colpo violento. Era chiusa, fresca. L’ho aperta. C’era niente di male secondo me.
Sono ripartito alzando lo sguardo, lentamente perché la testa mi girava. Un chiarore nel cielo mi faceva indovinare l’andamento dei tetti e le altezze degli edifici. Una luce gentile, ho pensato per un attimo che fosse quella dell’alba. Ma era solo il riflesso delle luci elettriche.
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